Femministe e transfemministe scendono in piazza in tutto il mondo il 28 settembre, giornata internazionale per l’aborto libero, sicuro e gratuito. Una giornata non stabilita da organismi istituzionali, ma che nell’ultimo decennio si è progressivamente affermata grazie al bisogno di pubblica visibilità che i movimenti hanno sentito il bisogno di esprimere proprio su questo tema.
Affermare la libertà di abortire significa affermare la libertà di scelta sul proprio corpo, sulla propria sessualità, sulla decisione di essere madre o meno, sottraendosi al destino riproduttivo e al ruolo imposto alle donne all’interno della famiglia e della società.
Il controllo del corpo femminile e della sua capacità riproduttiva è sempre stato costantemente perseguito da chi detiene il potere politico e religioso, configurandosi come una delle varie forme di violenza di genere imposte dalla cultura patriarcale. In una quotidianità pesantissima fatta di violenze diffuse, con una dato sconvolgente di femmincidi, lesbicidi, transcidi, la negazione della libertà di abortire occupa uno spazio molto rilevante e altrettanto inaccettabile.
E proprio perché la libera scelta di diventare madre o meno è un concreto atto di sovversione rispetto all’ordine patriarcale, l’aborto libero, sicuro e gratuito, rivendicato a gran voce dalle donne e dalle soggettività autodeterminate, è sotto attacco in tutto il mondo. In questi ultimi anni significative lotte di massa hanno costretto i governi a legalizzare l’aborto in Irlanda, Argentina, Colombia e alcuni stati del Messico; persino la repubblica di San Marino ha visto incrinare il suo anacronismo reazionario e ha dovuto fare i conti con le pressioni forti per l’accessibilità all’aborto e con gli esiti di un referendum tenutosi un anno fa, approvando lo scorso 1° settembre la depenalizzazione dell’aborto.
A fronte di queste rivendicazioni assistiamo in tutto il mondo ad un attacco all’aborto straordinariamente brutale. Dalla Polonia, all’Ungheria, a Malta, agli Stati Uniti si moltiplicano gli interventi reazionari degli stati e dei governi che intendono imporre politiche demografiche e assoggettare le donne al ruolo riproduttivo, negando la loro libera scelta e imponendo, oltre che repressione, insicurezza sanitaria. Perchè è chiaro che negare il diritto all’aborto vuole dire che le persone che avranno necessità di abortire lo faranno in modo clandestino e meno sicuro e che a farne le spese saranno soprattutto le donne più povere, più giovani, migranti o appartenenti a minoranze. L’aborto non cesserà di essere praticato, ma diventerà sempre di più una questione di classe e di privilegio, ricadrà nella clandestinità e nella mancanza di assistenza e sicurezza per chi non potrà permettersi altro.
La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti dello scorso giugno ha provocato molte reazioni proprio perché emanata in un paese di strategica importanza per gli orientamenti che impartisce a livello mondiale. Altrettanto importanti però sono gli attacchi all’aborto e alla libertà individuale delle persone gestanti attuati in Polonia, dove, oltre alle restrizioni fortissime sull’aborto, è stata istituita attraverso l’anagrafe delle gravidanze una sorta di regime di sorveglianza sulle donne e soggettività incinte. In Ungheria le misure di accompagnamento della rigida riduzione del diritto di aborto prevedono l’imposizione dell’ascolto del battito fetale. In Russia la Duma di Stato ha annunciato, nello scorso agosto, un progetto di legge per eliminare l’aborto dalle procedure presenti nell’assicurazione sanitaria obbligatoria anche in caso di stupri o abusi, restringendo evidentemente il diritto all’aborto in relazione alla situazione di guerra, in cui abusi e stupri si intensificano.
Analogamente, alle profughe ucraine accolte in Polonia che ne facevano richiesta è stato negato la possibilità di abortire e persino l’accesso alla pillola del giorno dopo.
Intanto Papa Bergoglio continua a tuonare contro l’aborto in ogni occasione, mentre anche “da sinistra”, si plaude in modo beota alle sue posizioni illuminate. Parallelamente, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea ha espresso la contrarietà della Chiesa cattolica al tentativo di introdurre il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Se pensiamo che la motivazione principale contenuta nella sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti si fonda sul fatto che il diritto all’aborto non fa parte dei diritti fondamentali della costituzione statunitense, la posizione della Commissione delle conferenze episcopali cattoliche UE non è certo casuale e rappresenta un elemento di straordinaria importanza di cui si è sentito parlare pochissimo.
In Italia la situazione è nota. Negli anni settanta, in un contesto che definiva l’aborto “reato contro l’integrità e la sanità della stirpe” si aprì una straordinaria stagione di lotte, di sperimentazioni autogestite e di profonde spinte dal basso; lotte che significavano innanzitutto una radicale messa in discussione della tradizionale nozione di sessualità e l’affermazione della autodeterminazione sul proprio corpo e la propria vita. Si diffusero esperienze di consultori autogestiti, gruppi di self-help, reti per la diffusione della contraccezione e per la tutela della salute, sperimentazione di tecniche abortive meno invasive delle tradizionali, che poi si sono affermate. La risposta a un movimento che chiedeva fondamentalmente la depenalizzazione dell’aborto fu una legge di regolamentazione, la 194, nata dal compromesso con settori reazionari e clericali, fatta per essere depotenziata dalla possibilità di obiezione di coscienza per medici, anestesisti ed infermieri, dalla presenza di associazioni antiabortiste nei reparti ginecologici, dalla commissione di accertamento e valutazione che decide aldisopra delle donne.
Così è stato. Ad oggi la media nazionale dell’obiezione di coscienza si attesta intorno al 70%, ma in alcune regioni si arriva al 90%; i consultori sono stati progressivamente ridotti dai tagli e attualmente sono assai meno di uno ogni 20.000 abitanti. Una situazione che di fatto in molte regioni rende inaccessibile l’aborto, che pure dovrebbe essere garantito per legge.
Nonostante questi limiti che ne hanno ridotto l’attuazione, negli anni la legge 194 ha subito diversi attacchi: dal referendum abrogativo promosso nel 1981 dal Movimento per la vita sollecitato da Papa Wojtyla, alla volontà, nel 2012, di estendere l’obiezione di coscienza dei farmacisti per la vendita della pillola del giorno dopo, agli interventi della CEI contro i bandi per l’assunzione di medici non obiettori promossi da alcune regioni.
In questi anni contro l’aborto si è sempre stabilmente schierato il vasto mondo cattolico e l’ultradestra reazionaria. L’imbarazzo di una certa sinistra e del mondo sindacale concertativo sulla questione è sempre stato evidente; ricordiamo ad esempio che la cgil qualche anno fa boicottò apertamente le iniziative del 28 settembre lanciando appuntamenti diversivi sui più generici “diritti”. E da qualche tempo ad osteggiare l’aborto ritroviamo anche settori primitivisti dediti al rilancio di una naturalità a tutto campo che valorizza strenuamente gli aspetti riproduttivi.
Ma gli ostacoli più rilevanti alla libertà di aborto vengono dalle istituzioni che dovrebbero garantirne l’accesso
In un quadro di obiezione di coscienza dilagante come quello sopra richiamato, regioni “rosse” come la Toscana continuano a prevedere finanziamenti per la presenza di associazioni antiabortiste nei consultori, mentre Piemonte, Umbria e Marche non applicano le linee guida nazionali sull’aborto farmacologico e la RU486. In Umbria addirittura si adotta il “modello ungherese” dell’obbligo di ascolto del battito del feto prima dell’interruzione volontaria di gravidanza, pratica recentemente introdotta anche nella Regione Emilia Romagna. Sul territorio nazionale sono oltre 50 i cimiteri di feti, alcuni approvati a livello istituzionale, come nella solita Umbria, con il consenso della maggioranza delle forze politiche, piddì compreso.
La questione aborto è stata presente anche nella campagna elettorale appena conclusa. Ed è curioso come ci sia stata una generale rassicurazione sul mantenimento della legge 194 da parte di pressochè tutte le forze politiche, comprese quelle che hanno sempre strombazzato contro l’aborto e che hanno inserito nelle loro liste icone antiabortiste. Tutto questo mentre Gandolfini (quello di Verona e dell’omossesuualità come “disagio identitario”) e l’Associazione Family Day e Pro Vita & Famiglia nella settimana prima delle elezioni firmavano un documento con Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia contro il gender e contro l’aborto, definito « soppressione di una vita umana inerme e innocente». Ma si sa, la coerenza non è di questo mondo. L’opportunismo invece sì.
La Meloni, in particolare, si è sperticata nell’affermare la volontà della piena applicazione della Legge 194, ovviamente prevedendo misure di depotenziamento come aiuti economici alle donne che rinunciano ad abortire.
D’altra parte è facile promettere di mantenere una legge che di per sé funziona poco e male. E poi qualunque politicante a caccia di voti comprende che è bene non alienarsi troppo l’elettorato femminile. Perchè tutti sanno perfettamente che in Italia nessuna donna, aldilà del posizionamento politico, è disposta a rinunciare all’esistenza di una legge sull’aborto; ed è bene mettersi al riparo da ciò che può avvenire nel segreto dell’urna.
Nel frattempo, aldilà di questo circo, il percorso di chi lotta per l’autodeterminazione va avanti. Oltre la 194. Il percorso è reale e in questi anni ha conosciuto diversi passaggi.
C’è la questione importantissima dell’aborto farmacologico, strumento formidabile, realmente in grado di smontare la trappola storica dell’obiezione di coscienza e perciò, non a caso, contrastato nella sua accessibilità . Uno strumento che non può sostituire totalmente l’aborto tradizionale perché richiede alcuni requisiti e competenze; ma questo limite dovrebbe costituire veramente la spinta per promuovere un dibattito e un intervento forte finalizzato a diffondere conoscenze e pratiche, rilanciando concrete modalità di autogestione e di mutualismo. Già sono nate e si stanno diffondendo reti di sostegno autogestite per sostenere la praticabilità dell’aborto farmacologico, aldifuori degli ostacoli frapposti dalle istituzioni.
Ma sul terreno dell’aborto c’è anche stato il passaggio importante rappresentato dall’acquisizione, nel dibattito femminista e transfemminista, della libera scelta di maternità e di aborto per tutte le persone gestanti, quindi anche per le persone trans con utero. Un passaggio importante e non scontato, necessario. Perché l’autodeterminazione non ha confini. Nonostante la repressione oscurantista, le colpevolizzazioni, gli ostacoli di una legge colabrodo, la libertà di scegliere, come tutti i desideri di libertà, si rigenera, si riafferma, rompe le maglie del diritto che vorrebbe irreggimentarla, sfugge a chi vorrebbe domarla, si fa fluida e intersezionale.
Di questo parlano le tante piazze internazionali del 28 settembre e la lotta quotidiana di donne e libere soggettività per l’autodeterminazione.
Ciennellepi